I limiti all’affollamento pubblicitario opponibili alle emittenti televisive a pagamento fra requisiti della delega legislativa e tutela dell’iniziativa economica.

La sentenza sotto riprodotta, inserendosi nel solco tracciato da una precedente giurisprudenza, ribadisce che la legge delega, allorquando adottata per il recepimento di una direttiva europea, deve essere interpretata alla luce del contenuto della direttiva stessa, sicché, in pratica, il Governo deve essere ritenuto autorizzato a introdurre disposizioni che, ancorché non ipotizzate come possibili dal legislatore delegante, siano tuttavia contemplate dalla normativa europea.

Ciò che, a ben vedere, la sentenza aggiunge – e non si tratta di cosa di poco conto – è che tale meccanismo può legittimamente operare anche al cospetto di una previsione della direttiva in cui semplicemente si permette agli Stati membri di approvare prescrizioni più rigorose di quelle varate a livello sovranazionale, ma senza operare scelte preventive circa il loro contenuto: ed è francamente difficile ritenere che lo spazio di discrezionalità così lasciato agli Stati membri possa, nel nostro ordinamento costituzionale, essere riempito autonomamente dal Governo senza neppure un vago accenno da parte del legislatore delegante.

La sentenza poi affronta (brevemente) il tema dei limiti all’iniziativa privata legittimati dall’art. 41, Cost., in particolare sotto il profilo dell’utilità sociale: nel confermare che tali limiti devono perseguire il soddisfacimento di interessi a loro volta di rango costituzionale, la sentenza riconosce che possiedono tale natura gli interessi legati non solo alla tutela della concorrenza e al pluralismo dell’informazione, ma anche alla protezione dei consumatori. (NB)

 

Corte Costituzionale, sentenza n. 210 del 2015.

Considerato in diritto

1.− Con ordinanza del 17 febbraio 2014, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 41 e 76 della Costituzione − questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), come sostituito dall’art. 12 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 44 (Attuazione della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive).

La disposizione censurata prevede che «La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte di emittenti a pagamento, anche analogiche, non può eccedere per l’anno 2010 il 16 per cento, per l’anno 2011 il 14 per cento, e, a decorrere dall’anno 2012, il 12 per cento di una determinata e distinta ora d’orologio; un’eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso dell’ora, deve essere recuperata nell’ora antecedente o successiva».

La disposizione in esame stabilisce quindi − per le emittenti televisive a pagamento − limiti orari alla trasmissione di spot pubblicitari più restrittivi di quelli previsti per le emittenti cosiddette “in chiaro”.

Ad avviso del giudice rimettente, essa si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 76 Cost., poiché tale misura sarebbe del tutto innovativa e non giustificata da alcuna previsione della legge delega, né da una ratio implicita della direttiva cui la disposizione dovrebbe dare attuazione.

Viene, inoltre, denunciato il contrasto con l’art. 3 Cost., per l’intrinseca irrazionalità della disposizione, che introdurrebbe un’ingiustificata differenziazione tra i limiti orari di affollamento pubblicitario applicabili alle emittenti televisive a pagamento e quelli applicabili alle emittenti in chiaro, nonostante l’unicità del mercato di riferimento; ed infine, con l’art. 41 Cost., poiché la disposizione inciderebbe sulla libertà di iniziativa economica delle emittenti televisive a pagamento, in difetto di una chiara ed inequivoca finalità sociale che giustifichi l’intervento normativo in questione.

2.− In via preliminare, va ribadito quanto statuito con l’ordinanza della quale è stata data lettura in pubblica udienza, allegata al presente provvedimento, in ordine all’inammissibilità dell’intervento spiegato dalla società Italia 7 Gold srl.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi ad intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale, le parti del giudizio principale.

L’intervento di soggetti estranei a quest’ultimo giudizio è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis, ordinanza emessa all’udienza del 7 ottobre 2014, confermata con sentenza n. 244 del 2014; ordinanza letta all’udienza dell’8 aprile 2014, confermata con sentenza n. 162 del 2014; ordinanza letta all’udienza del 23 aprile 2013, confermata con sentenza n. 134 del 2013; ordinanza letta all’udienza del 9 aprile 2013, confermata con sentenza n. 85 del 2013).

Nella specie, Italia 7 Gold srl non è parte del giudizio principale, sorto a seguito del ricorso, proposto da Sky Italia srl, per l’annullamento della delibera con cui l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha irrogato alla ricorrente una sanzione amministrativa pecuniaria, né risulta essere titolare di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.

Da quanto esposto consegue l’inammissibilità dell’intervento indicato.

3.− Sempre in via preliminare, l’eccezione di inammissibilità della questione, sollevata dalla Avvocatura generale dello Stato, in riferimento alla denunciata violazione dell’art. 41 Cost., è infondata.

Non sussiste, infatti, la lamentata genericità dell’ordinanza di rinvio.

La fattispecie concreta risulta descritta in modo sufficiente (per quanto rileva ai fini di causa) e viene individuato con chiarezza il petitum, volto ad ottenere la dichiarazione d’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, ritenuta in contrasto (tra gli altri) con il parametro costituzionale dell’art. 41 Cost., in quanto inciderebbe oggettivamente sulla libertà di iniziativa economica delle emittenti televisive a pagamento, in difetto di una chiara ed inequivoca finalità generale, atta a giustificare la misura in questione.

4.− La questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2005, per violazione dell’art. 3 Cost., deve essere, invece, dichiarata inammissibile.

4.1.− Secondo la prospettazione dell’ordinanza di rimessione, l’introduzione di limiti orari di affollamento pubblicitario differenziati per le emittenti televisive a pagamento, rispetto a quelli per le emittenti televisive in chiaro, non terrebbe conto dell’unicità del mercato di riferimento e costituirebbe, pertanto, una misura discriminatoria, che penalizza in maniera ingiustificata le emittenti televisive a pagamento.

Il parametro di cui all’art. 3 Cost. viene invocato dal giudice rimettente sotto il duplice versante della violazione del principio di eguaglianza e dell’intrinseca irragionevolezza della norma impugnata.

4.2.− Al fine di eliminare tale ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento, il giudice a quo richiede un intervento puramente demolitorio della disposizione dell’art. 38, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2005.

Ne consegue che, laddove la stessa fosse annullata, le uniche emittenti televisive assoggettate a specifici limiti di affollamento pubblicitario sarebbero la concessionaria pubblica (art. 38, comma 1) e le emittenti in chiaro (art. 38, comma 2).

Verrebbe meno, quindi, ogni limitazione per le emittenti a pagamento, le quali non potrebbero essere ricondotte nell’ambito applicativo delle altre disposizioni dell’art. 38, che specificamente riguardano la concessionaria pubblica e le emittenti in chiaro.

Anche laddove si ritenessero applicabili i limiti previsti «in ogni caso» dal precedente comma 4 dell’art. 38, tale soluzione non sarebbe coerente con il petitum formulato dal giudice a quo, volto ad realizzare il recupero della legalità costituzionale attraverso una piena equiparazione dei limiti di affollamento pubblicitario per le emittenti a pagamento e per quelle in chiaro.

4.3.− In definitiva, l’esito prefigurato dal rimettente – l’equiparazione delle emittenti a pagamento a quelle in chiaro, quanto ai limiti di affollamento pubblicitario − non potrebbe scaturire dalla caducazione dal contesto normativo dell’art. 38 della disposizione censurata. L’intervento correttivo invocato, afferente al solo comma 5, non varrebbe a ricondurre ad omogeneità le situazioni poste a raffronto e sarebbe, quindi, inidoneo a garantire la realizzazione del risultato avuto di mira dal rimettente, conseguibile non per decisione della Corte, ma attraverso la rimodulazione legislativa dei limiti di affollamento.

Ciò è motivo di inammissibilità della questione (sentenze n. 163 e n. 30 del 2014; ordinanze n. 200 del 2000; n. 259 del 1998).

Tale profilo di inammissibilità, in quanto fondato sulla ritenuta inidoneità dell’intervento invocato ad eliminare il prospettato vulnus al principio dell’art. 3 Cost., non si estende alle ulteriori censure formulate dal rimettente in riferimento a diversi parametri costituzionali, che devono pertanto essere esaminate partitamente.

5.− Nel merito, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 76 Cost., non è fondata.

5.1.− La previsione di limiti più stringenti di affollamento pubblicitario per le emittenti a pagamento costituirebbe, ad avviso del giudice a quo, violazione dei principi e criteri della legge delega, in quanto si tratterebbe di una misura del tutto innovativa, non giustificata da alcuna previsione espressa, né da alcuna ratio implicita della legge delega (legge 7 luglio 2009, n. 88, recante «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee − Legge comunitaria 2008»), e della stessa direttiva alla quale il d.lgs. n. 44 del 2010 ha dato attuazione.

5.2.− In linea generale, va ribadito come, secondo la giurisprudenza costituzionale costante, il contenuto della delega non possa essere individuato senza tenere conto del sistema normativo nel quale la stessa si inserisce, poiché soltanto l’identificazione della sua ratio consente di verificare, in sede di controllo, se la norma delegata sia con essa coerente (ex plurimis, sentenze n. 134 del 2013, n. 272 del 2012, n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, n. 163 del 2000).

La disposizione censurata è stata introdotta dall’art. 12 del d.lgs. n. 44 del 2010, adottato in esecuzione della delega conferita dalla legge n. 88 del 2009. Con essa, il Governo è stato delegato ad adottare i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione, tra le altre, alla direttiva 11 dicembre 2007, n. 2007/65/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 89/552/CEE del Consiglio relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive).

5.3.− Al di là del fatto che, con specifico riferimento all’attuazione di tale direttiva, il legislatore delegante ha conferito al Governo uno spazio di intervento particolarmente ampio, autorizzando l’adozione delle modifiche ritenute «opportune» (art. 26) e non solo «occorrenti» (art. 2, comma 1, lettera b), ciò che più conta è che, nel caso di delega per l’attuazione di una direttiva comunitaria, i principi che quest’ultima esprime si aggiungono a quelli dettati dal legislatore nazionale e assumono valore di parametro interposto, potendo autonomamente giustificare l’intervento del legislatore delegato (sentenze n. 134 del 2013 e n. 32 del 2005).

Nell’individuazione del contenuto precettivo della direttiva rilevano il considerando n. 32, che richiama l’obiettivo della armonizzazione minimale, il n. 59, che ribadisce la necessità di mantenere limiti orari di affollamento − attesa la loro preminenza sui limiti giornalieri – e, nella parte dispositiva, l’art. 3. Quest’ultimo consente agli Stati membri di stabilire, per i fornitori di servizi di media soggetti alla loro giurisdizione, norme più particolareggiate o più rigorose nei settori coordinati dalla direttiva, purché tali norme siano conformi al diritto comunitario.

All’interno dei limiti tracciati dal diritto dell’Unione europea, risultano quindi espressamente consentite disposizioni nazionali più rigorose in materia di pubblicità televisiva.

Di questa possibilità si è avvalso il legislatore delegato, nello stabilire limiti di affollamento pubblicitario differenziati per le emittenti a pagamento.

5.4.− La conformità al diritto europeo della nuova modulazione − introdotta dalla disposizione censurata − dei limiti di affollamento pubblicitario televisivo è stata positivamente accertata dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 18 luglio 2013, in causa C-234/12, resa nel caso in esame e avente natura vincolante nei confronti del giudice rimettente.

In tale pronuncia, l’obiettivo perseguito dalle direttive in materia di fornitura di servizi di media audiovisivi viene espressamente individuato nella tutela equilibrata degli interessi finanziari delle emittenti televisive e degli inserzionisti, da un lato, e degli interessi degli aventi diritto − autori e realizzatori − e della categoria di consumatori, ossia i telespettatori, dall’altro (paragrafo 18 della sentenza della Corte di giustizia 18 luglio 2013, in causa C-234/12).

La ricerca di tale equilibrio deve tenere conto della diversità degli interessi finanziari delle emittenti televisive a pagamento rispetto a quelli delle emittenti televisive in chiaro. Infatti, mentre le prime ricavano introiti dagli abbonamenti sottoscritti dai telespettatori, le seconde non beneficiano di una siffatta fonte di finanziamento diretto e devono finanziarsi con le entrate della pubblicità televisiva o mediante altre fonti (paragrafo 20 della sentenza della Corte di giustizia 18 luglio 2013, in causa C-234/12).

Le emittenti televisive a pagamento si pongono, pertanto, in una situazione oggettivamente diversa da quella delle emittenti in chiaro, quanto all’incidenza economica dei limiti all’affollamento pubblicitario sulle modalità di finanziamento delle stesse emittenti. È stata, quindi, esclusa la violazione del principio della parità di trattamento nella previsione, da parte del legislatore nazionale, di limiti orari di affollamento pubblicitario, differenziati in funzione della tipologia di emittenti (paragrafi 21 e 23 della sentenza della Corte di giustizia 18 luglio 2013, in causa C-234/12).

L’art. 38 del d.lgs. n. 177 del 2005 − nel modulare i limiti di affollamento pubblicitario in funzione delle oggettive diversità degli operatori – risulta coerente con la ratio della direttiva (come espressamente individuata dalla Corte di giustizia), in quanto volta a realizzare la equilibrata tutela degli interessi delle emittenti televisive, da un lato, e di quelli dei consumatori - telespettatori, dall’altro.

La disposizione censurata rientra, pertanto, nell’area di operatività della direttiva comunitaria, come definita dalla Corte di giustizia con la sentenza 18 luglio 2013, e rientra, altresì, nel perimetro tracciato dal legislatore delegante.

Da ciò discende l’infondatezza della censura formulata in riferimento alla violazione dell’art. 76 Cost., sotto il profilo dell’eccesso di delega.

6.− Del pari non fondata, infine, è la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 41 Cost.

Il legislatore statale può e deve mantenere forme di regolazione dell’attività economica volte a garantire, tra l’altro, la coerenza dell’ordinamento interno con gli obiettivi di armonizzazione stabiliti dalle direttive europee; in tal senso, la libertà d’iniziativa economica può essere anche «ragionevolmente limitata» (art. 41, commi 2 e 3, Cost.), nel quadro di un bilanciamento con altri interessi costituzionalmente rilevanti (sentenza n. 242 del 2014).

Nel caso in esame, la disciplina nazionale oggetto di censura si conforma a quella europea, nella quale − come sottolineato dalla stessa Corte di giustizia nella sentenza 18 luglio 2013, in causa C-234/12 − i principi e i criteri direttivi delle disposizioni relative all’affollamento pubblicitario televisivo mirano a realizzare la protezione dei consumatori, ed in particolare dei telespettatori, oltre che la tutela della concorrenza e del pluralismo televisivo. In tali obiettivi si ravvisa, in modo inequivoco, quella «finalità sociale» che appare in sé idonea a giustificare la misura normativa in esame.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), come sostituito dall’art. 12 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 44 (Attuazione della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive), promossa – in riferimento all’art. 3 della Costituzione – dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2005, come sostituito dall’art. 12 del d.lgs. n. 44 del 2010, promossa – in riferimento agli artt. 76 e 41 Cost. – dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2015.

IN ALLEGATO: SENTENZA N. 210 del 2015.